Gli ultimi dati ipsos (per il 2018-19) stimano in 10,200 gli studenti italiani che ogni anno studiano per un semestre o un anno accademico in una scuola all’estero, vivendo presso una famiglia locale. Considerando che nel 2011 lo stesso istituto ne aveva stimati 4700, il trend la crescita è significativa, e il trend si mantiene da anni. Sono numeri che rappresentano tuttavia una percentuale molto bassa sul totale della popolazione scolastica: 500.000 studenti circa considerando il 4° anno delle superiori, momento in cui tale programma si realizza. Le percentuali rimangono molto basse anche restringendo il campo ai soli licei classici, scientifici e linguistici, da cui di fatto proviene la quasi totalità dei ragazzi: 180.000 ragazzi al 4° anno. Non a caso una indagine del 2013 mostra come solo il 32% degli studenti italiani è a conoscenza di questa opportunità, rispetto ad esempio al 54% degli spagnoli e valori quasi doppi per gli studenti tedeschi e scandinavi. Il programma Intercultura, per un anno di “liceo” all’estero, esiste da decenni: è stato il primo e per lungo tempo l’unico programma di questo tipo in Italia. È un programma fortemente orientato sull’esperienza di scambio culturale, basato su famiglie che ospitano volontariamente (e gratuitamente) ragazzi di altri Paesi che vengono inseriti nelle scuole locali. Offre oggi una gamma di destinazioni molto più ampia delle altre organizzazioni, concentrate sulle mete più gettonate, e offre la possibilità di borse di studio per coprire i costi, che come vedremo non sono indifferenti. Per partecipare a uno scambio con Intercultura occorre superare una selezione non solo formale. Questo vale per tutti e non solo per chi richiede una borsa di studio in quanto si ricercano ragazzi con lo spirito e l’approccio giusto, non perché le richieste sono molto superiori alle disponibilità. Raffaele Pirola, Marketing Manager di Intercultura, stima che di tutti coloro che contattano l’associazione e che iniziano il percorso di informazione e selezione, un 30% non arrivano a presentare domanda formale di partecipazione. Del 70% che va avanti, solo un 50% viene accettato, con borsa di studio o senza.
A causa della crescita della domanda per questo genere di esperienze, sono nate ed esistono da tempo diverse organizzazioni, anche commerciali, che propongono soggiorni con frequenza scolastica all’estero di durata compresa fra i 3 mesi e un anno scolastico. Per via della lingua, i Paesi più gettonati sono la Gran Bretagna, la Nuova Zelanda, l’Australia, il Canada e naturalmente gli usa, ma sono disponibili anche opzioni in Spagna, America Latina, Cina e molti altri Paesi. Come sempre avviene, con il boom delle richieste, la qualità dell’esperienza e degli interlocutori è oggi molto eterogenea. Ci sono grandi organizzazioni e ottimi professionisti ma anche personaggi improvvisati, e non sono poche le lamentele da parte delle famiglie. In alcuni casi, le famiglie ospitanti ricevono un compenso, e quando questa è l’unica motivazione ad accogliere un ragazzo straniero è ovvio che vi sia una scarsa motivazione allo scambio culturale, a seguire l’inserimento nella nuova realtà, a venire incontro alle tante piccole necessità di chi passa improvvisamente da un mondo a un altro.
Presupponendo di utilizzare una organizzazione affidabile, restano altri aspetti da valutare:
- preparazione scolastica;
- esperienza di vita;
- costi.
La legge prevede il riconoscimento del periodo di studio all’estero, ma è sempre meglio discutere e concordare con gli insegnanti qui in Italia questa scelta e le sue modalità (periodo, piano di studi ecc.). Una scelta di questo tipo ha sempre un impatto sulla preparazione rispetto ai programmi italiani, crea sempre un qualche ritardo che deve essere recuperato. Non è un ostacolo insormontabile, ma va considerato e, soprattutto, vanno fatte le scelte giuste.
Chiara D. e Claudia F., che al liceo hanno partecipato a questo genere di programma e oggi collaborano con EF, uno dei maggiori e più noti operatori del settore, evidenziano alcuni punti:
- l’esperienza breve (3 mesi) di solito non ha impatti significativi, dal momento che è concentrata durante il periodo estivo e sottrae allo studente al massimo poche settimane di inizio settembre;
- la scelta del semestre dovrebbe ricadere sulla prima metà dell’anno scolastico. Anche in questo caso l’impatto sarà minimo, considerando che si parte in agosto e si rientra a Natale. In questi mesi, su cui incidono anche gli assestamenti di inizio anno, autogestioni ecc., gli insegnanti “vanno meno avanti” rispetto al secondo semestre, dopo Natale, in cui tipicamente le classi “corrono” per finire i programmi ministeriali;
- anche quando l’esperienza è di un anno, se si è scelto all’estero un piano di studi vicino al proprio, è possibile un pieno recupero (a prescindere dalla promozione comunque “garantita”) approfittando del periodo estivo. Un piccolo sacrificio se rapportato a una esperienza così importante.
Questo approccio è condiviso in linea di massima anche dai dirigenti scolastici che ho intervistato. In particolare la professoressa Elisa Colella, preside del Liceo Classico Mario Cutelli di Catania, esprime una posizione netta: «L’esperienza è molto positiva e formativa, ma ha senso se si fa un anno intero. Il semestre non è abbastanza per far “scattare” molti dei benefici del programma, per non parlare del trimestre, che si differenzia poco dai normali soggiorni estivi».
Questo piccolo “campione” è perfettamente in linea con i risultati della ricerca Presidi/Insegnanti del 2011, che vede il 48% dei dirigenti scolastici “molto favorevoli” all’anno all’estero, rispetto a solo l’11% degli insegnanti sondati. I ragazzi e i genitori intervistati confermano qualche maggiore difficoltà con gli insegnanti. «Io avevo solo un paio di professori che mi appoggiavano. Per fortuna uno di questi era il coordinatore di classe, aveva una maggior voce in capitolo e quindi sono riuscita a partire,» racconta Roberta S., oggi universitaria, che ha passato il 4° anno (liceo linguistico) negli Stati Uniti, in Montana, con Wep, altra grande organizzazione del settore «ma altri erano contrari. La prof di matematica continuava a dirmi “ma cosa vai a fare, è una perdita di tempo, poi quando torni ti carico di compiti,” di fatto minacciava. Poi ha avuto la meglio il coordinatore che era al 100% convinto di questa esperienza che, diceva, mi avrebbe fatto crescere come persona. Per lui importava più il bagaglio culturale acquisito in usa che il bagaglio scolastico italiano.»
Raffaele Pirola di Intercultura richiama una indagine del 2010, ripresa anche da un articolo del “Corriere della Sera” da cui emergeva che il 10% degli insegnanti si opponeva alla partenza e cercava di dissuadere lo studente15. Questo valore è rimasto stabile anche nella rilevazione del 2016, mentre è del 40% la quota dei professori che “subiscono” le scelte della scuola e degli studenti. Se l’esperienza è appoggiata, o per lo meno non osteggiata, dai docenti, potremo contare su un atteggiamento collaborativo al rientro, permettendo il giusto tempo di recupero. In caso contrario, dobbiamo mettere in conto anche un atteggiamento sottilmente (o apertamente) punitivo.
Il punto non è “se partire”, ma “chi parte” e “per fare che cosa”. La professoressa Sallusti del Mamiani ammette una resistenza a far partire studenti con sostanziali lacune di partenza e scarsa applicazione. Lamenta inoltre il pressing di molti genitori per aggiustare i voti insufficienti: «Professoressa, quel 5 mi raccomando facciamolo diventare un 6, che abbiamo già pagato 5000 euro per andare in America il prossimo anno!».
Che un lungo periodo all’estero arricchisca, faccia crescere, insegni un metodo diverso e produca una lunga serie di benefici è innegabile. Altrettanto innegabile è che sul programma italiano si resti indietro e si debba recuperare, con fatica e, spesso, a costo di lezioni private. Questo avviene in particolare per le materie umanistiche e quelle esclusive dell’Italia, come latino e greco. Per quanto vada di moda denigrarla, il livello della scuola è ancora mediamente superiore a quelle di molti altri Paesi, in particolare ai sempre citati modelli anglosassoni se si comparano situazioni equivalenti. Chi parte per queste esperienze, lo abbiamo già detto, viene in prevalenza dai licei, da realtà comunque di qualità. Inoltre, salvo alcune opzioni molto più care all’estero i ragazzi frequentano scuole pubbliche di piccoli centri o dei suburbs di grandi città, non le prep school di élite. Non conosco un solo studente italiano che, nel passaggio, non abbia trovato facili, in termini di contenuti, i corsi all’estero rispetto a quelli lasciati in Italia.
Molte scuole prevedono veri protocolli per chi parte, indicando tutte le cose da fare prima durante e dopo lo scambio per sfruttare al meglio l’esperienza e minimizzare i contraccolpi. La professoressa Sallusti riassume alcune considerazioni:
- scegliete corsi il più possibile vicini ai programmi della vostra scuola di partenza. Le materie scientifiche (matematica, fisica, chimica) sono di solito più allineate che non quelle umanistiche, a parte ovviamente la letteratura inglese. Se scegliete di “studiare” solo falegnameria, educazione fisica e seguire il laboratorio di teatro, potrete avere una esperienza fantastica ma certo poco funzionale in termini scolastici;
- rimanete in contatto con quello che fanno i vostri compagni e provate a mantenervi in esercizio con qualche versione nel tempo libero (un po’ come i compiti delle vacanze);
- guardatevi allo specchio: se avete difficoltà, se siete sempre “al limite” del debito formativo, non partite.
Ma come dicevamo all’inizio, altrettanto importanti degli aspetti scolastici sono l’esperienza e la crescita personale. Occorre mettere a fuoco bene gli obiettivi e le aspettative, anche di “stile di vita” durante questa esperienza. Per questo è utile un processo di informazione e selezione prima della partenza. La maggior parte dei ragazzi è attratta dai Paesi anglosassoni “classici”, per perfezionare la lingua e vivere il mondo sognato attraverso film e serie tv. Di nuovo, le opzioni sono le più varie ma, tenete presente che in generale:
non andrete a Manhattan o a West Hollywood, ma in una cittadina semirurale in the middle of nowhere, come dicono gli americani – o a “Inculonia” come dicono i ragazzi qui a Roma;
- se vi va bene (nella maggior parte dei casi non potete scegliere, se non con prezzi molto più alti), andrete magari in una grande area urbana, ma in qualche sobborgo residenziale;
- salvo eccezioni, in quei contesti, scordatevi un sistema di trasporto pubblico “europeo”. Sarete dipendenti dai vostri amici o dalla famiglia ospitante per i vostri spostamenti.
- Inoltre, vivendo in famiglia, ne entrerete a far parte a tutti gli effetti, seguendone le regole. In base alla mia esperienza personale, e dei racconti di chi c’è stato, la vita di famiglia è spesso molto diversa da quella cui i ragazzi sono abituati qui in Italia. I figli contribuiscono ai lavori di casa molto più che da noi, e in generale ci sono regole più strette in termini di orari, attività ecc. Inoltre, la religione è molto più sentita. Chi crede lo fa in modo molto più partecipato e profondo. Le funzioni religiose sono una cosa seria e, in molte famiglie, non è infrequente la preghiera ai pasti. Doversi rifare il letto e aiutare a lavare i piatti è per molti ragazzi, in quella fase, un salutare “trattamento shock”. Le famiglie concordano che in questo senso i ragazzi tornano molto cambiati… anche se poi si riabituano presto alle abitudini italiane!
Quindi, non per scoraggiare ma per regolare le aspettative, chi pensa di scegliere gli usa per andare a New York, fare il giro dei locali di Soho e studiare in una versione della scuola di Fame rischia di ritrovarsi in una cittadina agricola dell’Illinois, con due semafori e un 7-Eleven.
Sono ancora pochi, ma in crescita, i ragazzi che scelgono di passare un anno in Ungheria, Norvegia, Turchia, India o Cina, per una esperienza molto diversa, fortemente orientata all’incontro culturale, che prevale sugli aspetti linguistici e accademici. Per tutti, sia coloro che scelgono mete culturalmente più vicine che a maggior ragione per quelli che fanno la scelta opposta, l’esperienza incide fortemente sulla maturazione, sulla formazione del carattere e sulle scelte per il futuro.
Una indagine realizzata nel 201618 ha evidenziato e quantificato l’impatto della mobilità internazionale anche a lungo termine. Ne consigliamo la lettura e riportiamo qui alcune conclusioni.
Al ritorno dall’esperienza i ragazzi si sentono:
— più sicuri di sé (44% di chi è partito vs 11% di chi non è partito)
— più intraprendenti (47% vs. 23%)
— più socievoli (41% vs. 31%)
— meno timidi (solo il 2% vs. 26% di chi non ha fatto questa esperienza)
Il 27% degli intervistati dichiara spontaneamente che l’esperienza migliora l’autostima e il 41% che grazie a questa ha scoperto di avere una diversa percezione di se stesso: più maturo, più consapevole della propria identità, più indipendente nelle scelte. Inoltre il 73% «vive con maggior positività e propositività: grazie all’esperienza all’estero da giovanissimi sono diventate persone aperte, che sanno adattarsi, “cadere e ricominciare” scegliere autonomamente, vivere il (e nel) mondo».
Si evidenziano inoltre alcuni scostamenti significativi, su parametri fattuali molto concreti, rispetto a chi non ha fatto tale esperienza:
— lavorano e risiedono all’estero 24% vs 8%
— vive nella famiglia di origine 2% vs 12%
— laureati dopo 5 anni dal diploma (licei) 70% vs 52%
— laureati con 110 e Lode 32% vs 21%
— sono “molto felici” 69% vs 47%
— sono “poco o per nulla felici” 4% vs 21%
— si fida dell’Unione Europea 58% vs 18%
— buona conoscenza dell’inglese 99% vs 68%
Infine, eccoci all’argomento centrale: il costo. Prendo i costi pubblicati da Intercultura, che offre anche borse di studio. Gli ordini di grandezza non differiscono di molto per gli altri operatori, a parità di servizio: diciamo in media 15.000 euro (tutto compreso) per un anno, con punte di 22-23.000 euro per il Canada anglofono e la Nuova Zelanda; più economico il Sud America, dove per un anno si spendono circa 12.400 euro. Ovviamente, i costi per periodi di due/tre e sei mesi non sono proporzionali alle tariffe per l’intero anno, e quindi risultano meno convenienti anche dal punto di vista economico, e non solo meno efficaci in termini formativi. Per sei mesi, si va dai 10.000 euro dell’Europa Occidentale (Irlanda compresa) ai circa 15.000 della Nuova Zelanda. In quest’ultimo Paese, se si vuole soggiornare due mesi, bisogna preventivare un esborso di 8500 euro (contro i 7300, ad esempio, del Sud America). Per soluzioni più personalizzate, nelle quali si può scegliere non solo il Paese ma anche la località e la scuola, spesso privata (e quindi, di norma, confessionale), i costi salgono notevolmente, dai 20 ai 40 mila euro, riportano Alessia Merati e Gianfranco Raffaelli. Per Intercultura sono disponibili borse di studio, sia della Fondazione, aperte a tutti i candidati che rientrano nei requisiti, che di partner esterni; in genere sono offerte da enti e aziende ai figli dei propri dipendenti.
Se non coperte da borse di studio, sono cifre importanti. Rappresentano un investimento da valutare attentamente anche rispetto a utilizzi alternativi: con quel budget, è possibile come vedremo finanziare un Gap Year molto articolato o altre esperienze formative durante e dopo l’università.
Nella prima stesura di questo libro prendevo posizione nettamente a favore del Gap Year rispetto all’anno scolastico all’estero, sostenendo che, a parità di spesa, produce un beneficio personale e professionale maggiore, senza interferire troppo con la concentrazione e i risultati nel regolare percorso scolastico. Ho rivisto le mie posizioni dopo aver parlato con i protagonisti: ragazzi, genitori, insegnanti. Si tratta in effetti di due esperienze molto diverse, vissute in momenti diversi della vita (16 vs. 18 anni fanno la differenza). «L’importanza di questa esperienza sta proprio nel farla in età molto giovane, quando hai ancora una capacità di apprendimento, delle priorità nella vita, dei meccanismi mentali molto fluidi. Abbiamo anche studiato questo aspetto: per i meccanismi di apprendimento, l’esperienza a 16 anni ha un impatto più forte di quello che può avere successivamente» sottolinea Raffaele Pirola di Intercultura, ma lo stesso è confermato anche dagli insegnanti (credibili non solo come professionisti della formazione, ma anche in quanto senza “conflitti di interesse” sul tema). Certo, vivere in famiglia non è come girare il mondo da soli, ma a 16 anni è l’unica cosa che si può fare: il primo distacco dalla propria famiglia e, per quanto detto, banco di prova per sviluppare autonomia, capacità di adattamento e molte altre competenze.
Utilissima inoltre, con l’esperienza nelle scuole estere, l’esposizione a un metodo didattico diverso, che stimola l’analisi e lo spirito critico, all’etica e alla responsabilità individuale: non si copia perché non è giusto, non perché qualcuno ti sta sorvegliando. Per concludere, tengo a sottolineare che questa opzione può avere una validità ancora maggiore per chi è interessato in una esperienza culturale unica in Paesi come Turchia, Ungheria, India, Cina. Qui la maggior distanza culturale e la nostra minore familiarità con quelle società, che non siamo abituati a vedere rappresentate nei nostri cinema e televisioni, rappresenterà una autentica sferzata, una linea di demarcazione con un prima e un dopo.
Anno Accademico all'Estero: Alternativa al Gap Year?
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