Proporre un saggio-manuale sul Gap Year non è una moda, sia chiaro. È solo una maniera intelligente e avveduta di interessarsi a un modello di esperienza “larga” in grado di mettere a fuoco un progetto formativo (sic!) che ha già una tradizione consolidata in molti Paesi e sembra interpretare al meglio il bisogno crescente per i nostri giovani di dotarsi di competenze, interessi, schemi di lettura plurali della realtà, come richiesto ormai da un mondo sempre più complesso.
Un anno sabbatico – perché tale è nella sostanza il Gap Year – offre la possibilità di fare esperienze multiple e in gran parte non curricolari. Concluso l’ultimo anno degli studi superiori e prima di iscriversi all’università o di iniziare a lavorare ecco presentarsi un tempo non definito a priori, disponibile a piacimento, destinato a offrire ai ragazzi opportunità molteplici. Su un versante, consente di mettersi alla prova, alla fine di un ciclo scolastico che segna anche un passaggio rituale verso l’età adulta, affrontando autonomamente un progetto di vita per un periodo lungo un anno in cui inserire una varietà di programmi: dai viaggi che rispondono a interessi, passioni e curiosità spesso coltivate da tempo, agli incontri con ambienti sociali di lavoro e con popolazioni diverse, offrendo la possibilità di confrontarsi con condizioni variegate di vita, cogliendo opportunità e spunti coltivabili poi con successo. Mode e tradizioni, stili di comportamento e abitudini lontane possono trasformarsi in riflessioni e apprendimenti in grado di arricchire così il proprio bagaglio di conoscenze. Su un altro, spingono a testare la personale capacità di adattamento, di tenuta caratteriale e la disponibilità a misurarsi con contesti diversi, sapendosi orientare e imparando a dominare le difficoltà.
Viaggiare senza pregiudizi, decidere cosa vedere e in cosa impegnarsi, anche in termini lavorativi o di volontariato, come misurarsi in situazioni non previste, e soprattutto imparare a governare il proprio tempo, porta a metter a fuoco meglio quello che può diventare il proprio obiettivo di sviluppo e il programma dei propri studi universitari. Ci si confronta, forse per la prima volta, con la libertà di potere valutare cosa serve veramente per riuscire a realizzare le proprie aspirazioni, verificando la distanza tra la preparazione di cui si è in possesso e quello che manca.
Ma, contemporaneamente, si è chiamati a fare i conti con la propria capacità di assumersi responsabilità personali nel perseguire quello che sta più a cuore, ad affinare il controllo dell’ansia e dello stress in situazioni destrutturate, e insieme la disponibilità ad aprirsi e a sfruttare saperi altrove dispersi e potenzialmente carichi di valore. Un anno speso a prendersi cura di sé per imparare qualcosa che i libri non insegnano, andando a vedere di persona, facendo incontri non sempre programmabili e sfidandosi a superare gli ostacoli, aiuterà a guardare le cose e i problemi con occhi diversi, scoprendo che non c’è mai un solo punto di vista che possa esaurire la conoscenza delle cose, anche quelle date per scontate.
Ovviamente ci saranno delle precauzioni da prendere, delle priorità da definire (non tutto può essere ammassato in partenza con lo stesso peso relativo) e, ancora, dei riferimenti sui quali ancorarsi nella programmazione del proprio progetto per mantenere la rotta. Ma è indubbio che quello che si rivela con il Gap Year è un mondo di scoperta che apre la mente e irrobustisce la volontà, sottraendo il giovane all’abitudine del tutto previsto, del confortevole a oltranza, proprio quando oggi tutto sembra muoversi fuori dagli schemi consolidati di un tempo, rendendo incerta e confusa la prospettiva di come collocarsi nel proprio futuro. I giovani questa transizione, anche violenta, oggi la vivono sulla propria pelle e sono spinti quasi naturalmente alla ricerca di qualcosa che li possa aiutare a districarsi nella confusione di stimoli e nel bombardamento di informazioni che disorientano anche gli adulti.
Uscire temporaneamente da un solco già tracciato, andare a provare, vedere di persona, rinforza le risorse personali avute in dote, aggiunge conoscenze meno standardizzate e appare come un modo più appropriato per orientarsi e fare scelte più meditate e coerenti. Come sottolineava il grande sociologo tedesco Theodor Adorno, «ogni apprendimento deve essere e rimanere un’avventura, altrimenti è nato già morto». Accontentarsi, oggi, può significare perdere la vera opportunità di entrare “strumentati” in un tempo che non è solo il futuro – ché questo arriva per tutti –, ma che è per ciascuno il proprio avvenire, un tempo irrimediabilmente singolare, personale, da costruire.
Il rischio e il profumo di un’avventura non generica, sentita e personale, preparano a cavalcare con più sicurezza una prospettiva in cui non è più dato a nessuno di improvvisare, di rannicchiarsi, di mettere “vino nuovo in otri vecchi”. E i giovani hanno l’anima giusta per farlo. Il testo di Andrea Portante, ricco ed esaustivo, riesce a rappresentare con chiarezza il percorso di questo nuovo spazio formativo legato all’andare, allo sperimentare, al raccogliere stimoli e suggestioni da trasformare in scelte operative e di vita. Pur nella necessaria composizione di opportunità, di valori di scoperta e di rischi, sa condurre per mano nella esplorazione di un modello di crescita realmente possibile e incomparabilmente più ricco e soddisfacente. E, in fondo, viene incontro alle esigenze che anche i genitori oggi avvertono (se pur spesso confusamente) come impellenti, per assicurare ai figli una apertura di testa e di orizzonti che li renda più robusti e meno soggetti all’altalenare dei destini professionali.
Un buono strumento per chi voglia sognare un avvenire più alla portata di aspirazioni meno asfittiche e di progetti all’altezza delle sfide del nuovo mondo.
Pier Luigi Celli
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