Alcune considerazioni generali sul contesto economico credo siano utili sia per i genitori che per i figli, I segnali che arrivano dalla cronaca non sono, in generale, positivi. Viviamo una stagnazione che dura da anni, e il nostro Paese continua a perdere terreno, pagando problemi strutturali che sono andati peggiorando di anno in anno. Le misure introdotte in molti settori, sempre sbandierate come epocali, hanno avuto, nel migliore dei casi, impatto nullo e spesso effetti addirittura negativi.

Al di là dell’ottimismo di ordinanza sfoggiato dagli ultimi governi – tutti – e amplificato da mezzi di comunicazione più vicini alle public relation che al giornalismo, la sensazione di una realtà negativa e, ancor di più, di un orizzonte che non sembra offrire spiragli di ottimismo è confermata dai numeri. Se la crisi ha colpito praticamente ovunque, in Italia la crescita rimane inferiore a quella dei principali paesi Paesi di riferimento, cioè Germania, Gran Bretagna, Spagna e Francia.

Questo, sommato ai trend di sostituzione tecnologica, delocalizzazione della produzione verso Paesi a basso costo della manodopera e accentramento delle attività a maggior contenuto di “intelligence” verso i mega campus dei gruppi trans-nazionali, ha comportato non solo un aumento della disoccupazione, ma anche un impoverimento delle opzioni occupazionali. Premesso che i numeri sono calcolati, letti e usati in modo spesso strumentale alle proprie tesi, quelli istat, i più vicini all’ufficialità, ci mostrano un forte aumento dal 2007 della disoccupazione, in particolare fra i più giovani.

Per la prima volta da secoli i figli hanno una forte probabilità di stare peggio dei padri: non solo in Italia ma certo da noi più che altrove. È quanto emerge da uno studio di McKinsey&Co. – una nota società di consulenza aziendale – diffuso nel 20161. Se nel periodo 1993-2005 solo il 2% delle famiglie aveva registrato un reddito invariato o in calo, al 2014 erano il 65-70% le famiglie che si ritrovavano con un reddito inferiore al 2005. Questa la media di un gruppo di 25 economie avanzate. L’Italia figura anche in questa classifica come triste leader con il 97% di famiglie che vedono peggiorata la propria condizione.

Si allungano i tempi per trovare un lavoro che, quando c’è, spesso non riflette i titoli di studio conseguiti. Quelli che erano lavoretti estivi o part time buoni per mettere insieme il necessario a comprarsi il motorino o pagarsi le vacanze, sono diventati l’unica opzione per molti giovani ma anche per troppi padri di famiglia. Quei meccanismi – tirocinio, stage gratuiti o a rimborso spese, contratti a termine o di collaborazione – che rappresentavano una fase transitoria e preparatoria verso una carriera o comunque un rapporto stabile di lavoro, sono diventati in molti casi la modalità operativa standard. La chiamano Gig Economy. Con un sarcasmo nero, Maurizio Crozza ha ribattezzato le aziende globali che gestiscono questo sistema “inc. Cool 8”. L’Italia presenta uno dei più bassi tassi di partecipazione dei giovani (15-24 anni) e giovani adulti (25-34) al mercato del lavoro e questo per motivi culturali che avremo modo di approfondire e commentare: studio e lavoro sono considerati due momenti distinti e sequenziali del percorso formativo e di vita. L’Italia ha però anche elevati tassi di disoccupazione giovanile: 40% nel 2015 per la fascia 15-24 e 20% per la fascia 25-34 (nel 2004 era circa la metà per entrambi i gruppi); la situazione per i giovani dai 15 ai 24 anni è leggermente migliorata in questi ultimi anni, scendendo a circa il 30-35% a fine 2018. Questo, insieme ad altri fattori, si traduce in tempi di attesa elevati per il primo lavoro: 13 mesi per un diplomato e 5-9 mesi per un laureato, contro un mese in Germania. Il contratto precario diventa spesso l’unica porta di ingresso al mercato del lavoro: «tra coloro che sono usciti dal sistema di istruzione nell’ultimo biennio, la quota di occupati in lavori temporanei è del 51,7% per i laureati e del 64,4% per i diplomati» Gli italiani, e i giovani in particolare, tornano pertanto a emigrare a livelli comparabili con il picco del secondo dopoguerra. Usano zainetti e non valigie di cartone, FlixBus e compagnie low cost invece di treni e bastimenti, ma l’ordine di grandezza dei flussi è analogo. È quanto emerge, per esempio, dal Dossier Statistico Immigrazione 2017 elaborato dal Centro studi e ricerche idos e Confronti.

Gli italiani che ufficialmente si sono trasferiti all’estero sono cresciuti dai 102.000 del 2015 ai 120.000 nel 2018, contro soli 42.000 rientri, questi ultimi in crescita rispetto ai 30.000 circa degli anni precedenti a causa della Brexit. Se prima i laureati costituivano meno del 12% degli emigranti (dato 2002), già nel 2013 (ultimo dato disponibile) siamo al 30%, e la sensazione è che questa percentuale sia cresciuta ulteriormente negli ultimi anni. Questi, come dicevamo, i dati ufficiali. Il Centro studi ritiene che i dati istat vadano aumentati fino a 2 o 3 volte, portando il totale di emigrati nel 2016 a 285.000. La stima si evince incrociando i dati delle anagrafi tedesca e inglese con le corrispondenti cancellazioni anagrafiche italiane e del resto, per la stessa Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (aire), il numero dei nuovi registrati nel 2016 (225.663) è più che doppio rispetto ai dati istat.

Io stesso, da giovane, come tanti ho cercato esperienze all’estero e all’estero ho passato parte della mia vita professionale. Era allora, tuttavia, una scelta in positivo, non un obbligo. Si andava per spirito di avventura, per ricercare il meglio in vari campi, non accontentandosi della routine. Anche oggi, pur nel contesto descritto, andare all’estero può essere un periodo formativo, e al tempo stesso ricco di momenti memorabili, emozionanti e divertenti.

Che fare?

Se questo è, a grandi linee, il panorama generale, non mancano, ovviamente, eccezioni: giovani che, in virtù dei propri risultati e delle proprie scelte accademiche e professionali, trovano buone posizioni poco dopo la laurea, in Italia o all’estero, evitando di cadere nel “infinite loop” di stage-contrattino-Partita Iva. Ma

sono sempre meno, sempre più eccezioni alla regola. Quindi, per i ragazzi e per i loro genitori la domanda è: “Che fare?”, proprio come scrisse Lenin nel 1902…

Rassegnarsi e continuare a vivacchiare con l’aiuto delle pensioni di nonni e genitori, erodendo poi a mano a mano un eventuale gruzzolo familiare è una delle opzioni tecnicamente disponibili, ma non è quella che suggerisco. Per chi non si rassegna e intende, per lo meno, “giocarsela”, il mutato contesto impone di riconsiderare convinzioni consolidate, addirittura capovolgerle, e suggerisce scelte apparentemente contro-intuitive rispetto allo scenario appena descritto. In passato, e ancora per noi nati con il “baby boom”, in Italia la ricetta per il successo era:

  • pensa solo a studiare, non distrarti troppo con altre attività;
  • se te lo puoi permettere, non lavorare prima di aver finito di studiare;
  • seguire le passioni è un lusso: meglio ragioniere in banca che artista fallito;
  • scegli una carriera e quella rimarrà la tua per tutta la vita.

Se ha sempre avuto molte eccezioni, questa ricetta sembra oggi non solo inefficace, ma controproducente. Sacrificare le proprie passioni in nome di un sano realismo non porta a comodi, per quanto forse noiosi, posti fissi e il laureato mediano, costretto a passare da voucher a collaborazioni intermittenti e senza prospettive, non se la passa meglio del collega che non ha sfondato come artista ma vivacchia con qualche collaborazione, un blog e un canale YouTube.

La scuola, per una serie di ragioni che non possiamo approfondire in questa sede, non è più in grado di offrire una formazione completa e adeguata, né in termini professionali né, spesso, in termini di formazione personale. Le famiglie, stimolate in molti casi da suggeritori interessati, indirizzano i figli verso una serie di attività collaterali e integrative. Nei casi più fortunati (quelli scelti con più oculatezza) questo si trasforma in una esperienza costruttiva e positiva. In molti altri, in una perdita di tempo e denaro.

La corsa sfrenata al diploma e alla laurea, iniziando un anno prima o, nelle intenzioni di alcuni, riducendo a 4 gli anni della scuola superiore o a 2 quelli delle medie, si traduce in andare un anno prima a ingrossare le file dei disoccupati o dei sotto occupati. «There’s nothin’ wrong with goin nowhere, baby, but we should

be goin’ nowhere fast» cantava Meat Loaf. Sempre meno sono coloro che restano in una stessa azienda, in uno stesso lavoro, in uno stesso settore, in una stessa città o Paese per tutta la vita. Questo, in misura crescente, non per scelta, ma per necessità. Se prima qualche bancario annoiato “mollava tutto” e con i soldi della liquidazione avviava una produzione di olio in Toscana o un baracchino sulla spiaggia (vabbe’, il sogno era quello), oggi scelte analoghe, anche più improbabili, sono l’unica opzione per cinquantenni espulsi dalle aziende e senza prospettive di riassorbimento sul mercato del lavoro. Lo stesso vale per neolaureati stanchi di vivere appesi al filo di collaborazioni rinnovate alla vigilia della scadenza. Occupazioni autonome, in particolare quelle artigianali, si rivelano oggi una opzione interessante non solo in termini di “libertà” ma anche di guadagni. Un tempo i ragazzi erano di fronte a un bivio: lavoro il legno senza padroni, mi “realizzo”, ma rinuncio a guadagnare oppure entro in banca, guadagno, ma rinuncio ai miei sogni. «Compagno di scuola, compagno per niente, ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu…» cantava Antonello Venditti. Paradossalmente, oggi, tale bivio non esiste più. Questo è un bene. Purtroppo, ciò accade perché si sono ridotti sempre più gli spazi e le opportunità della “carriera” tradizionale, per cui nel confronto l’alternativa è tornata a essere competitiva. Rimane il fatto che, se si hanno delle passioni (e a 18 anni, se non le avete, avete un problema!), oggi è “razionale” seguirle, smentendo secoli di buonsenso familiare. Purtroppo «c’è stato, ed è tristissimo, un ridimensionamento dei sogni di questi ragazzi. Già a 20 anni spesso il loro sogno è un posto in Comune. È come una vecchiaia di ritornoche deriva probabilmente dall’insicurezza in cui sono cresciuti» (Stefania B., docente di Lettere in un istituto tecnico).

Solo poche figure professionali possono permettersi di surfare da una azienda all’altra seguendo un percorso di vera crescita. Flessibilità e mobilità obbligate, sono un dato di fatto che è futile discutere. È così, e basta. Personalmente ho fatto, in tempi non sospetti, scelte di questo tipo: ho cambiato lavoro, ho cambiato Paese, ma per mia libera decisione e non per mancanza di alternative! Per la cronaca, segnalo la mia lontananza da chi, da posizioni di responsabilità, ha esaltato questo stato di cose, come una grande opportunità, come salvezza dalla noia del posto fisso.

Solo i “migliori” riescono a non cadere nel tritacarne e a costruirsi una posizione (relativamente) solida. “Ma è sempre stato così!” si dirà. Certo, ma la curva di distribuzione si è molto sbilanciata. Prima valeva la curva “normale”: un 5% di eccellenze assolute, un ulteriore 10-15% di ottimi, pure destinati al successo professionale, un 20% di “scarsi”, destinati a scivolare indietro nella scala sociale e in mezzo una massa di “medi” o, se vogliamo, “mediocri”, che non potevano ambire a grandi exploit, ma che trovavano comunque un decoroso ruolo nella società. Oggi per essere eccellenti ed entrare nelle posizioni (e prima ancora nelle scuole) migliori, occorre essere nel “top 1%” del gruppo di riferimento. La società offre ancora qualche premio di consolazione per una piccola percentuale di “bravissimi”, ma il 90%, compresi degnissimi individui che hanno la sola colpa di non rientrare nella crème de la crème, entrano nel gorgo, in zona retrocessione, insieme alla coda della curva. Da lì è difficilissimo uscire: emergere da pile di centinaia di cv, piazzarsi nei primi 10 in selezioni scritte astruse, realizzate (letteralmente) negli stadi e nei palazzetti dello sport per migliaia di candidati.

Per entrare nel top non basta sgobbare sui libri, non basta essere intelligenti, occorre svilupparsi in modo completo, professionalmente e umanamente. E occorre seguire le proprie passioni in quanto solo così è possibile trovare tutta l’energia, la concentrazione, il sacrificio necessari per “arrivare”. Solo seguendo le proprie passioni si possono sopportare e superare le notti insonni, i giorni investiti sui libri o al lavoro mentre i nostri amici o i nostri cari si stanno divertendo. Solo così si può avere la forza di superare le sconfitte, di cadere e di rialzarsi 100 volte. Solo così. Il risultato si gioca sul filo di lana. Il fuoco interiore che accompagna ogni vera passione è il colpo di reni che ci può far guadagnare quel centesimo di secondo al fotofinish. Insieme agli altri elementi, costituisce condizione necessaria e non sufficiente per il successo. E per seguire le proprie passioni occorre prima conoscerle, scoprirle. «Durante le superiori o al più tardi durante l’università è essenziale che il giovane inizi a raggiungere una auto-consapevolezza che gli permetta di capire in quale contesto lavorativo darà il meglio di sé» concordano i selezionatori di giovani consultati e citati da Abravanel e D’Agnese nel loro libro. All’estero, molti hanno iniziato a rendersi conto di questa situazione e di conseguenza a spostare all’indietro la costruzione del proprio cv, arrivando spesso all’eccesso opposto. L’asilo giusto per entrare nella scuola elementare giusta, il liceo giusto, l’università giusta, costruendo via via un percorso che si ritiene deterministico. Si teme, cioè, che mancare anche solo uno degli step significhi uscire sicuramente e definitivamente dai play off per il gruppo di testa.

Anche in Italia si sta lentamente facendo strada questa coscienza e si sta diffondendo il ricorso a counsellors accademici, personal coach, corsi estivi, vacanze studio, camp sui più svariati argomenti. Come al solito la qualità e l’efficacia di questa offerta è molto variabile, dal momento che copre tutto lo spettro delle possibilità, dalla solida eccellenza alla moda sfruttata da pseudo- guru per prendere soldi ai gonzi.

Il Gap Year, concentrando in alcuni mesi tutta una serie di esperienze e attività di sviluppo personale e professionale, è un ottimo modo per integrare o, in taluni casi, anche sostituire, queste attività. Dico ottimo perché vantaggioso in termini di efficacia ed efficienza. Efficacia in quanto alcune esperienze richiedono tempi e contesti compatibili solo con mesi di full immersion: non basta un fine settimana o un mese di vacanza per “scoprire se stessi” facendo in bici la Carretera Panamericana o imparando a lavorare il ferro da un vecchio artigiano spagnolo. Efficienza in quanto, ad esempio, tre mesi di full immersion in loco costano meno e rendono di più che anni di corsi serali per imparare una lingua.